La sposa che scappa Ep.3

Salì più in fretta che poté, impacciata dall’abito da sposa e con i piedi scalzi, che ormai le facevano male.

Maria l’aspettava sulla porta, un sorriso largo come una piazza e gli occhi lucidi per l’emozione di rivederla, anche se l’aveva vista fuggire dalla chiesa meno di un’ora prima.

«Ammazzate ao’, che sceneggiata! Li hai lasciati tutti a bocca aperta»

«Oddio, non mi dire niente ti prego, sto’ in confusione, ho due o tre Paola dentro di me, che non fanno altro che discutere»

La fece entrare, non fece in tempo a chiudere la porta, che Paola era sdraiata sul divano, improvvisamente la tempesta dentro di lei, così come era arrivata, se ne andò, lasciandole un senso di vuoto e smarrimento che, subito, le smossero un pianto dirompente.

«Tieni bevi un po’ d’acqua» le disse allungandole una bottiglietta piena a metà.

Lei, tra i singhiozzi, bevve cercando di non strozzarsi, poi finalmente riprese fiato.

«Allora me lo dici che cosa ti è passato per la testa?»

«Ma tu perché sei già a casa? Come facevi a sapere che venivo da te?»

«E come facevo?  Ti conosco, mi sono detta, sta scalza, senza soldi, senza chiavi di casa, dove può andare? Verrà da me, sicuro. Così quando ho realizzato che eri scappata sul serio, mi sono fatta portare qui con lo scooter da Massimo, poi lui è tornato in chiesa, ha detto che non si vuole perdere i commenti e le reazioni»

Paola sorrise e si abbracciarono, come facevano sempre, uno di quegli abbracci che non vorresti finissero mai, con i corpi che si passano il calore e le anime che si toccano. Stettero strette l’una all’altra finché non si calmarono i singhiozzi e il respiro si fece più rilassato. Poi si guardarono dentro gli occhi, fino in fondo, fin dentro le pieghe più recondite delle loro essenze.

«Ma che ti ha preso?»

«Mari’, non lo so, ad un certo punto è stato come se mi mancasse il respiro, come se l’aria intorno a me si fosse fatta tanto spessa da non entrarmi nei polmoni, ho sentito ‘sto groppo in gola e un botto in testa, una vocina m’ha detto scappa, scappa, scappa e so’ scappata via. E quando stavo sul taxi ho cominciato a pensare perché ero scappata, e mentre scendevo qui sotto, tra la gente che mi guardava ridendo, l’ho capito Mari’ perché so’ scappata.

Perché mi sono rotta le palle, perché ad un certo punto mi sono resa conto che lui mi ama, ma ogni volta che me lo dice c’è sempre un pezzo in più, c’è sempre l’aggiunta.

C’è sempre un ti amo ma non è il momento, ti amo ma sai che mamma o papà, o Mario o Francesco o ‘sto cazzo fiorito che non so che cosa c’ha da di’ su di noi.

Ti amo ma dovresti essere più diplomatica, ti amo ma ci vuole pazienza, ti amo ma tu non devi dare di matto certe volte, ti amo ma, ma, ma vaffanculo tu e tutti i ma del mondo.

Perché ti prendi quel ti amo e mandi giù il ma, perché pensi sia colpa tua e mandi giù, perché pensi di essere inadatta e mandi giù, perché pensi che non ti meriti altro e mandi giù. Ma ogni volta che lo fai, sui muri di quella cattedrale d’amore che hai costruito per lui, si fa una crepa, viene giù un po’ d’intonaco, e poi un’altra crepa e un altro po’ d’intonaco e alla fine viene giù la cattedrale e tu vorresti scappare.

Te ne vorresti andare alla stazione e prendere un treno qualsiasi che ti porti lontano, ma c’hai solo una fontana nella pancia e piangi da sola, in silenzio, lontano da lui e da tutti, senza che nessuno se ne accorga.

Ecco, io tutto questo non lo voglio più. Basta!

Voglio un uomo che mi ami punto, uno che mi prenda tra le braccia e mi dica ti amo punto. O ti Amo punto esclamativo che è meglio.

Voglio uno che mi guardi negli occhi e che ci si perda, senza ma e senza sé.

Uno che mi guardi dall’altra parte della stanza e io mi senta spogliare l’anima, non togliere le mutande.

Voglio uno che si svegli la mattina e pensi che sia Natale ogni giorno, che ogni giorno mi guardi come fossi la sorpresa dell’uovo di Pasqua, che ogni giorno mi faccia sentire l’unica donna del mondo, l’unica femmina che se lo sia mai scopato!

Uno che m’abbracci pure se lavo i piatti o il pavimento e mi dica ammazza quanto sei bella con ‘sti guanti gialli o con i capelli tirati su.

Voglio uno tsunami dentro il cuore, no una scossetta de terremoto che scrosti un po’ il cornicione, a me me deve veni’ giù tutta la casa Mari’!

Voglio essere felice, ma tanto felice che non te lo puoi tenere dentro e devi chiama qualcuno per raccontarglielo, per dirgli so’ felice come quando m’hanno regalato il piccolo forno o la casa di Barbie.

Voglio essere felice ogni giorno solo perché c’è qualcuno che mi ama col punto esclamativo, senza mezze misure, o io o morte e ‘sti cazzi del resto.

Voglio l’amore Mari’, perché se quello che c’è stato finora è amore, allora non ho capito un cazzo e voglio sta’ da sola.»

Maria l’aveva ascoltata parlare di getto, a bocca aperta, poi disse solo «Ma perché ce stanno uomini così?»

«A Mari’, ma vaffanculo!»

E risero, finalmente risero insieme.

[continua]

Nuova Eruzione del Krakatoa – Associazione GMP GAIA APS
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A te.

Ti avevo immaginata proprio così, con quella tua schiena dritta, che né si piega né si spezza, anche se dentro, ogni tanto, ti tocca raccogliere il cuore dal pavimento.Ti avevo dipinta così, nella mia testa, con quella forza e quella curiosità che non dormono mai, ma sempre guardano al mondo con l’ingenuità di sperare ancora, nonostante la corazza che questi anni di vita ti hanno costruita sulla pelle e che ogni tanto, bisogna togliere per farti sentire il calore di un abbraccio, che ti ricarichi e ti consoli di tutto.A te, in questo giorno che celebra le lotte delle donne, vanno i miei auguri dal cuore. Perché se si cammina in due, si fa più strada e con più leggerezza.Ti ho incontrata in un giorno di sole e non ho smesso di guardarti,e allora tanti auguri.

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Lui e la Citroen nera.

Lui aveva un Citroen DS nera che incantava più della Deneuve sul red carpet di Cannes, lei un paio di scarpe con la zeppa e un vestito bianco, che al confronto la Deneuve sembrava la signora Silvani. Viaggiavano lenti godendosi l’aria della primavera, il sole riempiva l’auto facendo brillare i suoi capelli chiari e quella loro felicità senza un graffio di ruggine.Ogni volta che cambiava marcia, lui le sfiorava il ginocchio con una carezza, anche se aveva il cambio al volante. Lei rideva appena e ogni volta gli sfiorava con la mano il collo, come in una carezza, sempre ridendo appena.Si fermarono a due passi dal mare, vicino ad uno stretto viottolo che dal parcheggio portava sulla spiaggia.Lei scese e appena arrivò sulla spiaggia si tolse le scarpe, tenendole in mano, ora rideva guardandolo negli occhi, lui si offrì di portargliele mentre la teneva stretta per mano.Camminarono per un po’, prima di fermarsi e sedersi su un grosso tronco, buttato a riva dal mare.Si guardavano fisso, tenendosi la mano, poi lui sussurrò piano “riprendiamo da dove abbiamo lasciato l’altra volta, o devo ricominciare tutto da capo”Lei scosse la testa, si morse il labbro e rispose solo “riprendiamo”.Si baciarono a lungo, con le labbra umide di passione, gli occhi chiusi a godere di quell’emozione, sempre tenendosi le mani.Lo fecero finché ebbero fiato, si staccavano per qualche secondo, poi riprendevano, senza pensare a niente.Lo fecero fino a quando una coppia gli passò vicino con un piccolo cane bianco e nero, rumoroso come un carnevale di Rio.Si staccarono sospirando, si guardavano negli occhi, perché quello che vi vedevano li incantava. Si guardavano dentro come se riuscissero a guardare oltre la vita che li aveva separati fino a quel momento.Si guardavano navigando in quello spazio tra le pupille e l’iride come fossero galassie distanti, eppure era uno spazio piccolissimo, pieno di tutto quello che si volevano dire.Lei ruppe il silenzio per prima, vincendo un milione di battaglie dentro di sé e buttando via miglia nautiche di paure, “mi sa che mi sto innamorando di te”.“Io no, non ho fatto in tempo, ti amo già, da quando ti sei tolta le scarpe, nessuna lo fa come lo fai tu, nessuna”. Poi prese il suo cuore e glielo affidò, lei da quel giorno lo cura come non aveva mai fatto.

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Ti porto io!

Sono alla soglia dei 60 anni, nella mia vita è successo un po’ di tutto, come nella vita di tutti alla fine. Sono stato figlio e sono restato orfano, un po’ all’improvviso a raccontarla tutta, anche se papà, se ne era andato già da un po’ per la sua malattia e per lui eravamo solo delle ombre nella nebbia della sua vita ormai. Mamma invece mi ha regalato la gioia di un ultimo bacio, un ultimo abbraccio, la sera prima di andarsene e forse è per questo che se ne è andata in silenzio, senza clamore, senza avvisare. Le mamme fanno così e dentro ti lasciano questo vuoto che non riempi più. Perché, come dice Schiavone, la separazione la sopporti, ti ci abitui, ma la mancanza no, è un’emozione senza corpo.Sono stato marito e sono diventato ex, non senza clamore ad essere sinceri, non senza recriminazioni, rimpianti, dolore e strappi, ma così vanno in genere queste cose, anche se alla madre dei miei figli, va tutta la mia stima e ammirazione, e sì, anche gli ex possono provare certi sentimenti, per come ha tirato su quei due pezzi di galantuomini che sono i miei figli.Sono diventato padre, e non potrò mai essere ex, perché è un titolo che ti danno per la vita, ho trepidato tenendo tra le braccia quegli sconosciuti piovuti da chissà dove, poi li ho amati, come non si può amare niente e nessuno su questa terra e anche oltre. Li ho guardati crescere e diventare uomini ed ora che per abbracciarli mi devo mettere in punta di piedi, li guardo come neanche Lippi nel 2006 ha guardato la sua coppa del mondo.Poi arriva il momento che dovresti fare il bilancio delle cose fatte e metterti sulla veranda della tua vita a guardare il sole che brilla sul tuo giardino, ma non per tutti è così, arrivano altre occasioni, altre sfide, altre rotture di cojoni di livello dieci, sempre per citare Schiavone, che tu dici ma quando ci esco dalla tempesta, quando me lo godo un po’ di mare calmo?E forse è così e sarà così, perché il destino, che è sempre cinico e baro, capisce chi è un capitano di pattino da spiaggia e chi è un navigatore solitario, uno che se gli dai una canoa ti traversa l’Atlantico e ritorna, a dispetto tuo e delle tempeste. Così ogni volta mi rimetto in mare e pagaio come un pazzo, perché la scintilla della speranza non si spenga mai, perché gli altri, perché tu possa dire “ma quanto cazzo rema quello lì, che non si piega mai”.E se a volte devo remare più forte per starti dietro o per tirarti appresso, lo faccio, perché prima o poi finisce questa cazzo di pioggia e ci ritroveremo al sole, sulla spiaggia a goderci il caldo e a bere birra e gazzosa.Perciò prendi questo cazzo di remo e rema, tira il fiato e rema, spingi forte contro vento e rema, che ad arrendersi c’è sempre tempo e son tutti bravi a farlo.A te, perché se ti devo prendere sulle spalle per farti andare avanti lo faccio, senza pensarci su.

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“Allaccia la cintura principe’, che te porto via”

Allaccia la cintura perché siamo in corsa, che lo so che avevi paura di montare in macchina, ma ormai siamo in strada e non ci si ferma più.Non ci si ferma per un caffè o per la pipì, né per fare benzina, quella ce la mettiamo noi dentro questa nostra macchina e di quella ne abbiamo a sufficienza per girare il mondo, non una ma due o tre volte.Che questa, poi, non è una macchinetta qualsiasi, una di quelle anonime che girano oggi, tutte uguali bianche o grigie, poco importa.Una di quelle che non capisci se è una Toyota o una Ford. Questa è una spider rossa, una di quelle che sfreccia in autostrada come una Ferrari e si arrampica su per i passi alpini come uno stambecco. Una di quelle con cui ti godi l’aria della primavera respirandola a pieni polmoni o il sole caldo dell’estate sulla faccia.Una di quelle macchine che quando passano fanno girare tutti, che rombano e sgasano anche se stanno spente e tutti a dire ‘ammazza quanto è bella’!Allaccia la cintura che imboccata la rampa siamo in autostrada e filiamo via che è una bellezza, anzi mettiti il foulard sulla testa, che spingo sull’acceleratore e ti spettini tutta. Guarda, potremmo fare una deviazione ed andarci a godere il laghetto laggiù, ma sì, quello che tutte le volte ci si passa e si dice prima o poi ci andiamo, ecco questo è il momento, ce ne scappiamo laggiù io e te, spegniamo i telefoni ed evadiamo dal mondo qualche ora, così che tutti a chiedersi ‘ma quei due che fine hanno fatto’.E noi ce ne stiamo lì, stretti stretti io e te nella nostra spider rossa a sognare e sognarci davanti al laghetto.Poi ripartiamo, che il viaggio è solo all’inizio e abbiamo tanta strada da fare, tante cose da godere, tanti posti dove andare e quando ci fermeremo ancora, tutti ci guarderanno scendere dalla nostra spider e diranno ‘ammazza quanto si amano quelli là, ma si quelli della spider rossa’.

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Il vestito rosso.

Pensando a quella sera, si era regalata un vestito rosso di seta, con la chiusura a portafoglio, niente di vistoso o esagerato, un vestito rosso che arrivava sotto al ginocchio, chiuso in vita da un laccetto e tenuto su da due strette spalline. lo spacco davanti, non troppo pronunciato, lasciava intravedere un po’ oltre il ginocchio.Lo abbinò ad un paio di calze color nudo e ai suoi immancabili anfibi neri, usci di casa così, con le spalle coperte da un giubbino di pelle nera, la piccola borsa anch’essa rossa, grande il giusto per contenere le chiavi di casa e il necessario per rinfrescarsi il trucco.Accompagnò con cura dietro di sé il cancelletto, assicurandosi che fosse chiuso bene, non per la paura di lasciarlo aperto, ma per farsi guardare da lui, farsi osservare e dove non arrivava l’occhio, di immaginare.Sentiva il suo sguardo traversare i vetri della macchina, la poca strada che li separava e posarglisi addosso, senza malizia, senza sfrontatezza, così come un collezionista guarda l’opera più bella, con ammirazione e rispetto che quel capolavoro merita.Era così tra loro, era così fin dal primo momento che s’erano incontrati, già allora quello sguardo l’aveva lusingata, incuriosita, poi, qualcosa di più di una semplice emozione, l’aveva pervasa.Quando si incontravano, e non lo facevano mai da soli, lei sentiva, cercava, quello sguardo, quegli occhi chiari, percepiva quella sua attenzione ai particolari che disseminava qua e là, un ciondolo, un paio di orecchini, un rossetto che le piaceva particolarmente. Ma non osava credere che quegli occhi la scorrevano dalla testa ai piedi con quell’insistenza di chi cova un’emozione intensa, pura, talmente spessa da esserne spaventato.Ed ora lui era lì, ne poteva sentire l’odore, il profumo di doccia appena fatta, di camicia pulita, un’ombra di profumo speziato saliva dalle sue mani. Un’emozione calda, prese ad infiammarla dentro, da basso, un’emozione sconosciuta, l’aveva sentita subito, appena s’era seduta così vicino a lui, appena s’erano salutati con un bacio, troppo lungo per essere d’amicizia, troppo distante dalle sue labbra per essere d’amore.Continuarono così a giocare tra loro guardandosi, un po’ raccontandosi, un po’ ascoltandosi, ma sempre con gli occhi oltre la soglia dello sguardo, dentro il guazzabuglio di emozione e pulsazioni, che le facevano battere il petto, le tempie, il cuore della pancia.Si sfiorarono per tutta la cena, lei provocava, incalzava, poi si ritraeva, temendo il suo rifiuto, lui allora avanzava, scrutava, fingeva di ammirarle le mani per poterle prendere, sentire il loro calore, immaginarsele addosso.Nell’uscire dal locale, lui l’aiuto a mettere il giubbino, s’era portato dietro di lei per infilarglielo e nel farlo, s’era avvicinato fino a sentirne il profumo del collo, fino ad affondare la faccia nei suoi capelli chiari, lei, sorpresa e sopraffatta, fece per voltarsi e per un attimo i loro volti si sfiorarono, lì, in mezzo al locale, dove improvvisamente le voci s’erano fatte più basse, quasi a non volerli disturbare, ora che il gioco s’avvicinava alla conclusione.Uscirono con lui che le offriva il braccio, lei lo stringeva a sé, reggendolo con la mano libera, come a promettergli di tenerselo addosso, da lì in poi.E fu quando le aprì lo sportello dell’auto, che lui lanciò i dadi sfidando il destino e si giocò il piatto, la tirò a sé con sorprendente determinazione e prima che lei potesse rifiutarsi, se pure avesse voluto, la baciò sulle labbra, per un attimo, lieve, si staccò, poi la tirò ancora e la bacio profondamente, cercando la sua bocca affamato, la strinse a se cingendola in vita, con la forza di quante più braccia pareva avere d’improvviso. Lei lasciò che quel bacio la narcotizzasse e rispose, rispose come se l’avesse atteso da sempre, come se avesse aspettato quel regalo da tutta la vita, ed ora, improvvisamente arrivato, non lo voleva mollare più. Stettero stretti l’una all’altro per un tempo che parve non finire più e un altro po’, premendosi i corpi addosso. E mentre le bocche si cercavano con sempre più passione, sentiva l’emozione di lui crescerle addosso, diventare spessa contro di lei, mentre da basso un calore di velluto le infiammava il ventre.

Sergio Spera 2021 (ogni riferimento a fatti o persone reali è assolutamente voluto)

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Il messaggio nella bottiglia.

Mario s’era seduto su una vecchia barca capovolta, che la furia delle mareggiate aveva spinto su per la spiaggia, così che ora, la distanza dalla battigia, lo metteva al riparo dagli spruzzi che le grosse onde provocavano infrangendosi sulla riva. Si preparò calmo una sigaretta e l’accese, badando a riparare la fiamma dal vento, ne assaporò un paio di boccate e poi tirò fuori un piccolo quadernetto dalla tasca del giaccone, trasse da un taschino una piccola matita e cominciò a scrivere, alternando le parole alle lente boccate del fumo. “È un libro bianco tutto da scrivere questa nostra storia. Una pagina dopo l’altra, giorno per giorno, ora per ora, insieme o distanti ma uniti da questo filo di seta, che ci cinge in vita. In una pagina parleremo della sorpresa, in una dello stupore, un’altra sarà dedicata alla passione e avrà i bordi spiegazzati dal troppo sfogliarla. Scriveremo insieme di quello che ci è mancato finora, scriveremo del rispetto e della fiducia, della tenerezza di confessarsi e della dolcezza delle nostre mani che carezzano i volti. Appunteremo pensieri e sottolineeremo parole speciali, parole come ridere, colmare, saziare. Daremo un senso alle cose, troveremo il significato delle notti insonni a guardarsi un po’ increduli e un po’ stupiti, delle mattine vorticose, quando un bacio sospende il tempo fino alla sera, quando un altro bacio scioglie l’incantesimo. Spiegheremo che rispettarsi è amarsi e amarsi è stimare la schiena dritta davanti ‘ai rumori e alle furie di questa favola insensata’(*) che è la vita. Racconteremo di come ci tendiamo la mano nel bisogno e di come andiamo per mano nella felicità, spiegheremo che insieme camminiamo più leggeri e il fardello ci pesa di meno. Sigilleremo il tempo insieme scrivendo e correggendo, giorno dopo giorno, finché la scrittura non si sarà fatta sicura e fluida, mentre il tempo ci restituirà gli attimi sottratti uno ad uno, finché non saremo ripagati di tutto il dolore patito e il contenitore dei rimpianti sarà svuotato per sempre”. Guardò il foglietto, lo rilesse, lo piego per bene fino a farne una striscia e lo infilò nella piccola bottiglia che si era portato appresso. La tappò con cura, spingendo il sughero bene in fondo, poi lento s’avvicinò alla riva, prese un po’ di slancio e lasciò volare lontano la bottiglia, oltre le onde che, grosse, si infrangevano sulla spiaggia. La guardò sparire tra i flutti, pensando che magari un giorno qualcuno avrebbe letto di quell’amore, chiuso stretto dentro una bottiglia.Sergio Spera 2021(*) cit. Shakespeare

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La sposa che scappa Ep.2

Il tassista guardava dallo specchietto quella sposa mezza strapazzata, che poi, ritrovarsi a prendere una cliente, di domenica mattina, vestita da sposa, è una di quelle storie che continui a raccontare per gli anni a venire. Ma in quel momento, a guardare quella donna, abbandonata sul divano posteriore, con l’acconciatura di capelli biondi che si smontava lentamente, il trucco che si scioglieva mentre le lacrime silenziosamente le rigavano il volto, lui, l’unica cosa che riuscì a pensare fu ‘ma questa i soldi per la corsa, ‘ndo ce li avrà nascosti?’. Stettero così qualche minuto, nella testa di lei, mille pensieri si accalcavano, si rincorrevano, si escludevano, mentre in gola un groppo le serrava il respiro. ‘Ma cosa mi è venuto in mente, ma che cazzo ho combinato’, intanto stava lì, annegata nel sole di quel maggio romano appena cominciato, con quella strana, misteriosa e infida, sensazione di felicità dentro la pancia, come una piccola pallina di flipper che correva su e giù, dapprima lentamente, poi, sempre più rapida, sempre più decisa.Proprio come in un flipper, quando lanci la palla con la molla, quella rallenta man mano che corre lungo il canale di lancio, arriva in cima piano, lentamente, poi, lenta prende a scendere lungo il piano, il primo bumper e accelera, poi il secondo, un altro ancora e fatichi a seguirla con lo sguardo, finché non te la ritrovi sulla paletta e d’istinto la rispedisci verso l’alto.Così era nella sua pancia, slam, bump, stack, slam, bump, buca. «Allora signori’, che dice, dove andiamo?» «E che ne so, ho fatto un casino oggi, proprio un casino» «Non se preoccupi, che a mette’a posto le cose se fa sempre in tempo» Sospirò, poi continuò «ho capito va’, oggi la prima corsa la offre la ditta». Si rassegnò a lasciarla qualche minuto coi suoi pensieri, fece ancora un gran sospiro e guardò fuori la città che continuava la sua giornata come se nulla fosse successo. «Guardi quanto è bella ‘sta città signori’, so’ duemila anni che è così, ce so’ stati imperatori, papi, duci e malandrini, i romani hanno aspettato, hanno sempre aspettato che passasse er tempo loro. Pazienti, hanno atteso e so’ stati premiati, non se preoccupi, passerà pure ‘sta botta pe’ lei». Le strappò un sorriso, tirò su la testa, s’asciugò le lacrime con le mani, finendo di sbavare il pesante trucco, s’aggiustò sul sedile, e avvicinandosi all’autista disse «andiamo in via Tuscolana, vediamo se c’è Maria, magari le paga la corsa e io mi potrò cambiare, sempre che mi faccia entrare» finì la frase quasi in un sospiro.Quello mise in moto e lento s’avviò. Mentre guardava scorrere dal finestrino i ruderi antichi, il parco, la gente a passeggio o che si fotografava, le ronzava sempre lo stesso pensiero nella testa ‘ma che ho combinato’. Solo ora realizzava che era suo quell’abbandono, quella fuga, quella corsa precipitosa fuori dalla chiesa, quei minuti in mezzo a gente che la guardava stupita e divertita, era lei l’attrice, non la comparsa di quei gesti. Sul momento, l’adrenalina le aveva pompato tanta di quella forza, di energia, di rabbia, che quasi non si ricordava nulla, non si rendeva conto di quello che faceva. Ora quei momenti, quei ricordi, le arrivavano addosso tutti insieme, togliendole il respiro. «Guardi fermi qui, all’angolo, aspetti che se c’è la mia amica la faccio scendere e la pago». Quello accostò, si fermò, si girò verso di lei e appoggiandosi allo schienale disse «guardi per la corsa non fa niente, offro io, solo una cosa vojo sape’, come si chiama lei, che stasera quanno lo racconto a mi’ moje, devo esse’ preciso, che me farà l’interrogatorio». Lei, davanti a quella semplicità, a quella gentilezza non poté che rasserenarsi e sorridere, «Paola, mi chiamo Paola» gli disse stringendogli la mano. Scese tra gli sguardi stupiti dei passanti, si fermò davanti al citofono di un palazzone enorme, cercò il nome e spinse forte il pulsante. «Chi è?» chiese una voce femminile dall’altoparlante. «Paola, sono Paola». «Lo sapevo che venivi da me, Sali va’, li mortacci tua!»

Lei sentì la frase finire tra le risate, un attimo dopo udì lo scatto del portone e si infilò rapida dentro.

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La sposa che scappa Ep.1

Arriva poi il momento in cui la somma di tutti i sì, sia quelli dati a mezza bocca, che quelli estorti a forza, si sommino e moltiplichino il loro peso, insieme a tutte le buone azioni rese consapevolmente, ma solo a seguito della propria buona educazione, alla quale si resta legati per tutta la vita, proprio come uno schiavo alle sue catene, in una piantagione di cotone in Alabama. A questo fardello, già di per sé difficile da portare, si somma il peso delle scelte fatte perché così impone la famiglia, i genitori, i fratelli, gli amici e buona parte del vicinato e anche parte del lontanato. Fino a che quel fardello, si fa così pesante che, non ne puoi più di portarlo sulle spalle e decidi in un colpo solo di mollarlo lì. Lo butti dove ti trovi, incurante del posto, dell’occasione, del momento, lo prendi e lo getti lontano da te. Così Paola quel giorno decise di dire addio a quel suo personalissimo peso, prese quel macigno che si portava appresso e lo scagliò via senza pensarci un solo attimo in più. E non importava che stesse lì, con le forme prorompenti strette dall’abito bianco fatto su misura, i capelli biondi raccolti sulla testa e tutti tirati dall’ acconciatura, in ginocchio accanto a lui, con le mani rese bianche dallo sforzo nello stringere il piccolo mazzo di fiori che teneva in mano. Non importava che le centinaia di persone dietro di lei, le premessero addosso il loro silenzio in quel momento cruciale, mentre il prete ripeteva il suo nome e quello di lui. La montagna venne giù all’improvviso, le tonnellate di ‘va bene’, ‘si lo faccio’, ‘non c’è problema, ci penso io’, strariparono tutte insieme come un fiume, che sotto una notte di scrosci torrenziali, la mattina travolge gli argini ormai indeboliti e trascina per la pianura intorno ogni cosa trovi sul suo cammino. Così la diga si ruppe, l’argine cedette, il muro di contenimento venne travolto, anche l’ultima corda che le tratteneva l’anima, tirata oltre ogni capacità di resistenza, cedette con uno schianto secco. Secco come il no che risuonò in quelle navate silenziose, fredde, mute testimoni di una catastrofe biblica senza precedenti. Paola disse ‘No, non voglio!’, s’alzò in piedi un attimo dopo averlo detto, scagliò il mazzo di fiori per terra con uno scatto rapido, guardò il prete che, sbigottito, senza parole, a bocca aperta allargava le mani, guardò lui come una furia. Lui che, zitto nell’impossibilità di capire quel momento, la guardava con gli occhi teneri di un bambino a cui stavano strappando il gelato. Si tolse le scarpe prendendole per gli alti tacchi e gliele mise in mano, come il dono estremo di quelle nozze abortite nel momento più importante. Si girò a guardarli tutti e, mentre ognuno di loro mormorava lo stupore proprio e di tutti gli altri, ripetette ‘no’, con voce più forte, che tutti capissero quel no. Poi tirò su con le mani l’ingombrante gonna e scappò fuori, scappò via così, scalza, tra il rumoreggiare di parenti e amici che si scambiavano occhiate interrogative, mentre le mamme prorompevano in un pianto inconsolabile e i papà si guardavano sconcertati. Con lo sposo che se ne stava lì, ancora in ginocchio, reggendo in mano, in un precario equilibrio, la scatolina con le fedi, le scarpe e quel loro amore finto, finito davanti all’altare, proprio lì, dove l’amore viene santificato davanti a Dio e alla comunità, proprio lì s’era infranto il loro. Uscì dalla chiesa correndo, restò un momento abbagliata dalla luce che le esplodeva intorno, mentre il sole l’illuminava facendola splendere come una stella, finalmente. Corse ancora e ancora, senza sentire il dolore ai piedi, il caldo dell’asfalto, le risate intorno a lei. Corse fino a che non s’infilò nel primo taxi che trovò, chiuse la portiera e tirò un gran respiro. L’autista si voltò, la guardò, stette un attimo in silenzio, ma solo un attimo. “Dove la porto signori’?”

Sergio Spera 2020

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#andràtuttobene.

L’hashtag è #andràtuttobene e ti credo, perché l’hasthag #andratuttoaputtane, oltre che sapere di premonizione pare brutto e offensivo di una delle categorie più in sofferenza in questi giorni, con i clienti reclusi al 41bis, loro per davvero, con le mogli in ciabatte, le sopracciglie unite che neanche Breznev, il colore naturale dei capelli che lentamente, giorno dopo giorno la ricrescita disvela, le unghie che si riprendono il loro posto invece di gel e ricostruzioni dipinte come tele del rinascimento. Ma soprattutto i peli, i tanti, temuti, odiati, combattuti peli, che vengono su con una forza manco fossero fili d’erba in mezzo al cemento, nel frattempo gli estetisti prendono contatti per assumere, alla fine della quarantena, manipoli di pastori sardi per procedere alla tosa-depilazione.
Loro, i mariti poveretti, quelli che vanno al bagno 15 volte al giorno per poter mandare un saluto, un bacetto, un pensiero copioincollato da frasicelebri.it all’amante, o scambiare due parole con la collega d’ufficio convinta che siate single in quarantena in un loft, o guardare in pace le foto porno mandate dal gruppo del calcetto, che nel frattempo si è rinominato “daje co’ youporn”.
Andratuttobene perché se non altro moriremo di inedia e di ozio ma in case talmente pulite e disinfettate, che ci si potrebbe operare a cuore aperto sul pavimento della cucina, anche perché la prima settimana è stata dedicata alle pulizie, ma così pulizie che manco se nostro signore Gesù avesse deciso di risorgere nel soggiorno di casa nostra, riuscivamo a farle così a fondo.
Andratuttobene perché la seconda settimana ci siamo buttati sulla pasticceria, ma al terzo giorno non si distinguevano più le analisi del sangue dalla ricetta della crostata di Iginio Massari, così ci siamo dati alla panificazione. E lì le vette raggiunte dall’italica fantasia non hanno avuto limiti e siamo riusciti a riprodurre pure il pane che gli antichi Assiri facevano con la farina ricavata dalla saggina delle scope e finito il lievito, abbiamo riscoperto la bontà del pane azimo cotto sulla pietra arroventata in forno.
Poi alla terza settimana col colesterolo che correva più dello spread, i trigliceridi che giovano a palla coi pochi globuli rossi, i globuli bianchi che nel frattempo si erano dati alla macchia, che tanto non servivano più, a forza di disinfettare tutto, lavarsi con lo spirito, farsi il bidè con l’amuchina (perché qualcuno ha letto che il cugino del macellaio del droghiere davanti al farmacista all’angolo, s’è infettato pure andando al cesso dopo uno positivo),
Alla fine abbiamo capito che era meglio darsi una regolata, e magari anche stare un po’ all’aria aperta e inventarsi di cantare tutti insieme.
Così tutti in balcone a cantare l’inno, nel blu dipinto di blu, che poi si intitola volare e domani vincerò, che tanto domani è uguale a oggi, in una sorta di giorno della marmotta nazionale.
Poi qualcuno avrà pure pensato che cantare andava bene se hai studiato musica, o se sei nato con l’orecchio musicale e distingui un fa diesis da si bemolle, ma se sei stonato come una campana rotta, c’hai i nodi sulle corde vocali ma tu te ne freghi e insisti a voler cantare “I Will survive” in falsetto, io ti tiro una martellata dal balcone di fronte che Thor su Ragnarok mi fa un baffo, così ti sdraio lì e non mi frantumi più i cojoni!
Ora però qualche cosa si incrina su andratuttobene, perché all’ennesima video conferenza di Conte, che in sordina ti prolunga di altri 15 giorni, tu sbrocchi e visto che stai ai domiciliari comunque, visto che sull’ultimo modulo per l’autocertificazione è comparsa la dicitura ‘fine pena mai’, decidi di regolare i conti con quello del piano di sopra che ti sgrulla la tovaglia sul balcone, ti annaffia le piante quando tu hai steso le lenzuola del corredo buono di mamma e allora sali su a bussargli con quella grazia che Jack Nicholson su Shiningh è solo un’educanda delle orsoline.
Allora si che riscriviamo l’hasthag,
#andratuttoaputtane.

Jack Nicholson su Shiningh
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